Come catturare, in 1001 parole, tutto il clamore e l’iperrealismo, la scala epica e la forma elefantiaca, la pirotecnica testuale e l’esuberanza verbale, la notorietà e la celebrità fuori misura, di uno scrittore gigantesco come Salman Rushdie? Una risposta potrebbe essere quella di cadere a pezzi, come fa Saleem, letteralmente, di fronte alla pura grandezza e incommensurabilità della storia dell’India in Midnight’s Children (1981).
Un’altra sarebbe quella di correre con l’iperbole, come fa il critico culturale Sukhdev Sandhu:
“Rushdie … è uno degli scrittori più famosi del mondo. Qualsiasi festa di Manhattan sulla cui pista da ballo non abbia scosso il culo entro mezzanotte potrebbe essere considerata un fallimento. I suoi romanzi vendono a centinaia di migliaia, Midnight’s Children (1981) è stato premiato con il Booker dei Booker nel 1994”. (Sandhu, 2003)
Potremmo aggiungere a questa lista impressionante che la scrittura di Rushdie ha generato una piccola industria accademica tutta sua, con oltre 700 articoli e capitoli già scritti sulla sua narrativa, e non meno di 30 studi lunghi come libri incentrati sulla vita e le opere di Rushdie. Il problema con questo approccio iperbolico è che porta a generalizzazioni radicali su Rushdie che ignorano, come Sandhu continua a sottolineare, “le specificità storiche e geografiche che danno alle sue finzioni tale grinta e battito”.
Un resoconto più modesto e microscopico di Rushdie sembrerebbe sensato in questo contesto: Uno che possa rendere conto della plasticità formale del lavoro dell’autore in termini di tradizioni orali indiane piuttosto che di postmodernismo globale; o delle sue allusioni cinematografiche in termini di cinema di Bombay degli anni ’50 piuttosto che di una concezione generale e occidentalizzata di “Bollywood”; o della sua scrittura in termini di preoccupazioni letterarie discrete, piccoli spostamenti di enfasi e sviluppi tematici, piuttosto che attraverso etichette generiche come “realismo magico” o “postcolonialismo”. In effetti, si potrebbe sostenere che il continuo abbandono critico del primo romanzo di Rushdie, Grimus (1975), ha a che fare in parte con le sue qualità atipiche e la sua ostinata resistenza alle generalizzazioni in quanto tali.
Grimus fu persino idiosincratico in termini di ricezione immediata, essendo una specie di flop quando fu pubblicato per la prima volta, o “troppo intelligente per il suo stesso bene” nelle parole dell’autore. Il romanzo è ambientato sull’immaginaria Calf Island e segue la ricerca di Flapping Eagle attraverso una curiosa miscela di stili che incorpora modernismo ed esistenzialismo, mitologie indiane e sufi, così come allegoria e fantascienza. A differenza della sua scrittura successiva, che rivela un’immaginazione saldamente geografica (nonostante e forse a causa della sua preoccupazione per la dislocazione), il primo romanzo di Rushdie è caratterizzato da una certa mancanza di confini, che critici come Timothy Brennan hanno sostenuto per spiegare il suo abbandono. Ciò che è suggestivo in termini di narrativa successiva è il fascino di Rushdie con le idee centrali di commistione e migrazione.
I figli della mezzanotte (1981), Shame (1983) e I versi satanici (1988) sono le opere più note di Rushdie fino ad oggi, e sono talvolta considerate insieme come una trilogia. Midnight’s Children è, tra le altre cose, una storia fittizia dell’India post-indipendenza, una storia che ci viene chiesto di leggere attraverso la lente della vita di Saleem Sinai. Nato nella mezzanotte dell’Indipendenza, Saleem, insieme ad altri 1001 bambini, è dotato di poteri magici che portano in direzioni sia creative che distruttive. Nato da poveri genitori indù, cresciuto da ricchi musulmani, Saleem è un figlio bastardo della storia e una metafora della nazione post-coloniale.
Secondo Rushdie la falsificazione della storia in Midnight’s Children era un sintomo della sua stessa condizione di scrittore migrante che vive a Londra e cerca di catturare una patria immaginaria attraverso le imperfezioni della memoria infantile. È questo tema della migrazione che diventa sempre più centrale nel contenuto dei due romanzi successivi. Shame è una rappresentazione magico-realista del Pakistan e, come Midnight’s Children, usa una saga familiare privata come modello allegorico sottilmente velato della storia pubblica e politica della nazione. La casa ancestrale su cui si concentra il romanzo è un ambiente gotico, sotterraneo e labirintico dove le finestre guardano solo verso l’interno. Come tale serve a suggerire la violenza oscura, la coscienza repressiva e il carattere segreto associati al Pakistan negli anni tumultuosi dopo il 1947.
Nei Versi Satanici l’immaginazione schizofrenica migrante che erompe a intermittenza nel tessuto narrativo primario di Shame prende possesso dell’intero testo. Il romanzo inizia a circa 30.000 piedi sul livello del mare, all’indomani di un attacco terroristico su un aereo. Mentre i protagonisti indiani Saladhin Chamcha e Gibreel Farishta cadono a terra, cominciano a metamorfosare in forme sataniche e angeliche. La rappresentazione della storia dell’Islam nel romanzo ha notoriamente provocato una fatwa contro Rushdie. Al di là dei passaggi offensivi, tuttavia, è un romanzo che è tanto critico nei confronti del Thatcherismo quanto dell’Islam, con la Londra degli anni ’80 e l’antica Jahilia/Mecca che diventano universi paralleli associati a culture emergenti di intolleranza e fondamentalismo.
Scritto all’ombra della fatwa, Haroun and the Sea of Stories (1990) è una storia per bambini per adulti e un’avvincente difesa allegorica del potere delle storie sul silenzio. Allo stesso modo, il suo romanzo successivo, L’ultimo sospiro del moro (1995), pur ricordando per certi aspetti Midnight’s Children, e ambientato principalmente in India, affronta i temi dell’isolamento e della morte che ricordano l’autore e l'”Affair”. The Ground Beneath Her Feet (1999) è un romanzo del tutto più esuberante. Sia una storia d’amore che una storia della musica rock dai margini, il libro è una celebrazione di alcuni dei temi centrali di Rushdie fino ad oggi (movimento, ibridazione, trasformazione) attraverso la mitologia greca e il mito di Orfeo/Euridice.
Insieme al suo romanzo successivo, Fury (2001), The Ground Beneath Her Feet suggerisce una nuova preoccupazione per le questioni della globalizzazione (piuttosto che il ‘semplice’ transnazionalismo delle opere precedenti). Per altri versi, però, Fury è un altro romanzo atipico. Ambientato principalmente a New York e relativamente distaccato dai contesti dell’Asia del Sud, il libro è la narrativa più condensata di Rushdie fino ad oggi, evitando i caratteristici filoni narrativi tentacolari che attraversano generazioni, periodi e luoghi.
Shalimar the Clown (2005), il nono romanzo di Rushdie, è stato salutato da molti critici come un ritorno alla forma. Ambientato in Kashmir e a Los Angeles, sviluppa molti dei temi presenti in Fury ma, secondo The Observer, in modo “più calmo” e “più compassionevole”. Apparentemente una storia di amore e tradimento (temi familiari nel precedente lavoro di Rushdie), c’è una nuova urgenza in questo libro con le sue meditazioni sul terrorismo post 11 settembre. L’Incantatrice di Firenze (2008), il successivo romanzo di Rushdie, è anche una delle sue opere più strutturalmente impegnative fino ad oggi. Va oltre il semplice riassunto e rappresenta, almeno in superficie, una svolta dal presente al passato, dalla politica alla poetica (naturalmente, le due cose sono reciprocamente costitutive). Incentrato sulla visita di un europeo alla corte di Akbar, e sulla sua rivelazione di essere un parente perduto dell’imperatore Mughal, il romanzo è stato recensito in termini entusiastici dal Guardian come una “sontuosa miscela di storia e favola”.
Nel 2012, Rushdie ha pubblicato il suo tanto atteso memoir, Joseph Anton (una combinazione di due dei suoi autori preferiti: Conrad e Cechov). Il libro di 650 pagine è un tesoro per i fan dello scrittore. Scritto in terza persona, Joseph Anton contiene ritratti intimi dei genitori e della prima moglie di Rushdie, i suoi anni di clandestinità e i suoi rapporti contrastanti con la polizia che gli faceva da tutore, i suoi amici e nemici letterari e politici, oltre a tutta una serie di allettanti approfondimenti biografici nella mente dell’uomo dietro le storie.
Seguito di Haroun e il mare delle storie, e una delle sue opere più acclamate dalla critica negli ultimi anni, Luka e il fuoco della vita (2010) riporta i lettori iniziati al paesaggio familiare di Alifbay e al mondo di Haroun e del suo grande padre narratore, Rashid. Quando Rashid cade, inaspettatamente, in un sonno profondo, è solo Luka, il fratello minore di Haroun (ora non più così giovane: sono passati diciotto anni dalla sua avventura), che può salvarlo dall’oblio. È un tentativo di salvataggio che porta Luka in un viaggio magico che rivaleggia persino con Haroun.
Sebbene Rushdie sia sempre stato conosciuto soprattutto come romanziere, è anche un abile saggista (Imaginary Homelands, 1991 e Step Across This Line, 2002); un influente, e talvolta controverso, editore (The Vintage Book of Indian Writing, 1997 e The Best American Short Stories, 2008); uno scrittore di racconti sorprendentemente economico (East, West, 1994) e un astuto critico culturale (The Wizard of Oz, 1992). Per Rushdie, sembra, l’eccesso, la sovrabbondanza e la molteplicità sono più che semplici preoccupazioni estetiche, sono anche una vocazione.
Dr J Procter, 2013
Per una recensione critica approfondita si veda Salman Rushdie di Damian Grant (Northcote House, 1999: Writers and their Work Series).
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