Sviluppo di stili operistici in altre città italiane

Diverse altre città italiane svilupparono presto stili operistici riconoscibili nel XVII secolo. A Roma, dove ricchi prelati divennero ardenti sponsor dell’opera, i librettisti ampliarono la gamma dei soggetti per includere leggende di santi. La maggior parte dei compositori romani dell’epoca, come Stefano Landi, Domenico Mazzocchi, Luigi Rossi e Michelangelo Rossi, seguirono la tradizione fiorentina includendo ensemble vocali e finali corali (con danza) per ogni atto. Si discostarono dallo stile fiorentino aumentando il contrasto tra le arie e i recitativi, permettendo alle arie di interrompere la continuità drammatica, e rendendo i recitativi più discorsivi e meno interessanti musicalmente. Usarono anche episodi comici per alleggerire storie prevalentemente tragiche (come fecero i veneziani) e introdussero ouverture strumentali e pezzi simili a ouverture che precedevano atti o sezioni di atti.

Due compositori romani – il fratello di Mazzocchi, Virgilio, e Marco Marazzoli – sono spesso citati per aver creato la prima opera completamente comica, Chi soffre speri (1639; “Chi soffre, spera”). Il suo libretto fu scritto da Giulio Cardinale Rospigliosi, che sarebbe stato elevato al papato nel 1667 come Clemente IX. Il più famoso libretto di Rospigliosi, Sant’Alessio (1632; “Sant’Alessio”), ebbe un’impostazione di Landi, che richiedeva un cast tutto maschile, compresi i castrati nei ruoli femminili – un’altra caratteristica dell’opera a Roma, dove alle donne non era permesso cantare sul palco. L’opera è stata ripresa con successo nel tardo 20° secolo, con una nuova razza di controtenori altamente qualificati e virtuosi che hanno preso i ruoli originariamente destinati ai castrati.

L’opera era anche una parte importante della vita musicale a Napoli, dove il primo teatro d’opera permanente della città, il Teatro San Bartolomeo, fu fondato nella metà del 17° secolo. Nel 1700 Napoli rivaleggiava con Venezia come centro dell’opera italiana, in gran parte grazie alle opere e all’influenza di Alessandro Scarlatti, che si era fatto una reputazione a Roma. Scarlatti scrisse almeno 32 delle sue 66 opere per San Bartolomeo tra il 1684 e il 1702, prima che la guerra di successione spagnola (1701-14) lo costringesse a tornare a Roma. Delle sue opere, La caduta de’ Decemviri (1697; “La caduta dei Decemviri”) – su un libretto di Silvio Stampiglia che contiene non meno di 62 arie – rappresenta Scarlatti all’apice della sua carriera teatrale. Continuò a scrivere opere per Roma, Firenze e Venezia, prima di tornare a Napoli nel 1709. Lì, tuttavia, lo stile delle sue opere cominciava ad essere superato.

Un movimento neoclassico nell’opera, originatosi a Venezia alla fine del XVII secolo, aveva iniziato ad epurare i libretti da scene e personaggi comici e a richiedere trame più semplici, basate sulle tragedie dei drammaturghi francesi Pierre Corneille e Jean Racine, che usavano un linguaggio elevato e sostenevano l’ideale classico di unità di tempo, luogo e azione, che richiedeva che il libretto avesse un’unica trama che si svolgesse in un giorno e in un unico luogo o ambiente. Questi valori si riflettevano in un tipo di opera conosciuta come opera seria (plurale: opere serie), o “opera seria”, distinta dall’opera buffa (plurale: opere buffe), o “opera comica”. Le opere serie di Scarlatti sono esemplari nel loro uso di trame unificate con meno di 10 personaggi, i cui sentimenti e personalità sono espressi in una serie di arie da capo, un tipo di aria particolarmente associato alle opere serie napoletane. L’aria da capo era una forma su larga scala in tre sezioni (ABA), con la terza che ripeteva la prima “dal capo”, cioè dall’inizio. La forma consisteva in un poema conciso, in rima, la cui idea principale era catturata da uno o due motivi musicali caratteristici che venivano espansi in un elaborato assolo pieno di musica e ripetizioni del testo incorniciato da ritornelli strumentali. L’obiettivo del compositore in ogni aria era quello di rappresentare una o due emozioni tra una vasta gamma di passioni, al fine di modellare un ritratto musicale dello stato d’animo di un dato personaggio in quel momento dell’azione – una funzione simile a quella del primo piano cinematografico che ferma l’azione oggi. Scarlatti impregnava le sue arie di qualità e profondità inusuali e le dotava di una strumentazione ricca e varia.

Tra i successori immediati di Scarlatti ci furono compositori come Nicola Porpora, Leonardo Vinci e Leonardo Leo. Questa generazione collaborò spesso con il poeta drammatico Pietro Trapassi, noto come Metastasio, forse il più grande librettista del XVIII secolo, le cui opere furono musicate da circa 400 compositori fino al XIX secolo. Continuando l’usanza di basare i libretti sulla leggenda greco-romana e la pseudo-storia, con trame che ruotano intorno a personaggi come Didone, Alessandro Magno e Tito piuttosto che a eroi mitologici, Metastasio e il suo predecessore veneziano Apostolo Zeno scrissero testi di bellezza formale e chiarezza linguistica, preferendo soggetti solenni, solitamente tragici (opera seria) in tre atti a episodi e personaggi comici.

Il termine opera napoletana, oltre alla sua associazione con l’opera seria, venne anche ad indicare uno stile leggero e ingraziante, talvolta chiamato galante, che si basava sulla messa in primo piano di graziose melodie vocali, presentate in frasi simmetriche ed equilibrate. Queste melodie erano poste contro un accompagnamento più semplice che era libero dai ritmi trainanti delle arie precedenti (del periodo barocco, corrispondente all’incirca al XVII e all’inizio del XVIII secolo) e che sosteneva piuttosto che competere con la voce. Molte delle qualità che furono associate al cosiddetto stile classico viennese del XVIII secolo – specialmente la musica strumentale di Joseph Haydn, Wolfgang Amadeus Mozart e Ludwig van Beethoven – ebbero le loro origini nello stile vocale intonato dell’opera napoletana.

Entro il 1730 l’opera italiana, talvolta in traduzione, era arrivata in circa 130 città e paesi europei, da Copenhagen a Madrid e da Londra a Mosca. Le convenzioni sempre più rigide e poco drammatiche dell’opera seria suscitarono critiche, come la satira mordace Il teatro alla moda pubblicata nel 1720 dal compositore-poeta-statista veneziano Benedetto Marcello. Gli elementi di base del recitativo e dell’aria, gli ensemble occasionali e i cori sono stati mantenuti fino ai giorni nostri, anche se le loro proporzioni in relazione gli uni agli altri sono variate. Nel XVIII secolo, l’opera italiana era veramente un mezzo internazionale e l’unico veicolo attraverso il quale un compositore di successo poteva ottenere fama e fortuna.